Inviso a Dio e ai nemici suoi


Inviso a Dio e ai nemici suoi!”, esclama Marco, oggi 99 anni e l’altro ieri – 1944 – partigiano comunista, parafrasando il Poeta (“a Dio spiacenti e a’ nemici sui”) nel suo terzo canto infernale, invettiva contro gli ignavi, gli indifferenti di Gramsci: eppure, credetemi, nulla di più lontano, Marco, dall’ignavia e dall’indifferenza.

Nipote di possidenti terrieri dell’alto Monferrato legati a doppio filo al Fascismo e figlio, per dirla col Segarelli da Mereta, dell’inurbamento (il padre commerciante, antifascista sui generis; la madre fascista, capocuoca all’Officina riparazioni navali a San Pier d’Arena), Marco nasce a Genova nel febbraio del 1922 e cresce con la madre nel centro di Genova, in salita San Matteo; studia dai preti ma legge i russi e i francesi ed è abbonato alla biblioteca circolante di Galleria Mazzini; colpa di Voltaire, se perde la fede religiosa. Si diploma maestro elementare e, nel 1941, insegna alla scuola Garibaldi, in via Venezia, nel quartiere di San Teodoro.

Ma il suo sogno è fare l’avvocato. Per iscriversi a Giurisprudenza serve la maturità classica e, per dare l’esame di maturità classica, ingurgita cinque anni di greco in sette mesi, svegliandosi alle tre di notte per studiare gli aoristi con il rettore del collegio dei Figli di Maria a Rivarolo: e lo passa, l’esame, e s’iscrive all’Università, che si paga da sé facendo il maestro al mattino per studiare legge al pomeriggio. Marco in quegli anni è un giovane patriota cresciuto nel solco tracciato dal sistema educativo fascista e tuttavia dotato di un suo proprio spirito critico. Prova repulsione per l’albagia dei gerarchi, eppure -ingenuamente- rifiuta l’idea della sconfitta: prima si vince la guerra e poi si faranno i conti coi gerarchi.

Sarà proprio la guerra a far mutare opinione a questo giovane patriota. Succede tutto nei primi mesi del 1943: a febbraio Marco parte per il militare, in Brianza, corso allievi ufficiali. All’arrivo non ci sono gli scarponi per le reclute; viceversa, fiorisce il commercio clandestino della “borsa nera”. Nelle ore di riposo, sotto le tende, i giovani allievi chiacchierano, discutono, si confrontano: fanno politica. Marco, quando cade il Duce, il 25 luglio 1943, è a Roma, all’ospedale militare. Cortei per le strade, giubilo popolare. “È la stessa gente che in Piazza Venezia applaudiva Mussolini?”, si chiede. Poi l’armistizio, il “tutti a casa” e il matrimonio, a ventun anni e mezzo: aveva detto alla sua fidanzata che si sarebbero sposati alla fine della guerra e la guerra era finita! E poi d’improvviso il comunismo, impersonificato da Giacomo Buranello e da Walter Fillak, conosciuti grazie a un amico in via Balbi, all’Università, nel settembre del ’43: al comunismo Marco aderisce naturalmente, unica offerta politico-militare immediata e convincente contro fascisti e nazisti, contro i quali ha deciso di combattere. La sua fase cospirativa termina con l’arresto (maggio 1944) e una breve parentesi dietro le sbarre, cui seguono la fuga (rocambolesca come ogni fuga), la partenza per i monti (luglio), la nascita della figlia (15 agosto) e il primo rastrellamento subito (24 agosto), in val d’Aveto, dov’è commissario politico di un piccolo distaccamento della divisione Cichéro.

La svolta per Marco in montagna arriva alle Capanne di Carréga, con l’incarico ricevuto dai suoi capi: scendi a Cabella a dare un’occhiata, fiuta l’aria della bassa valle, fatti degli amici. È così che comincia la storia di quello che sarebbe diventato il SIP, il Servizio informazioni e polizia della val Borbéra, diretto da Marco sotto il controllo di Attilio, impetuoso sindacalista di Genova-Certosa, comunista figlio di anarchici, figura centrale del partigianato di Cichéro.

Servizio informazioni, ma anche scambi di prigionieri, rapimenti e riscatti, prelievi forzosi ai danni di fascisti e ricconi per finanziare la lotta. Avanti fino al 25 aprile, alla Liberazione, con la parte che la divisione Pinàn-Cichéro, filiazione della primigenia Cichéro in val Borbéra, ricopre nella vicenda della resa di Genova, col blocco della valle Scrivia alle gole di Pietrabissara a impedire ogni velleità di fuga da parte degli ultimi tedeschi rimasti in città.

Infine il dopo: un dopo che parte con la resa dei conti per le strade della città, condannata da Marco senz’appello, tanto più quando a coprirla e, talora, a incentivarla ci sono compagni del suo partito. Partito al quale, una volta rientrato a Genova, e seppur togliattiano di rigida osservanza, Marco non formalizza l’iscrizione, perché lo attende l’incarico di capo dell’Ufficio Politico della Questura, braccio destro di Gelasio Adamoli (funzionario del partito, vice-questore e futuro sindaco). “Con il ruolo che ero stato chiamato a ricoprire, ritenevo inopportuna la mia iscrizione al partito”, ricorda. Resta due anni all’U.P. come ausiliario, poi passa di ruolo e viene trasferito ad Asti, dove l’attentato a Togliatti lo costringe – partigiano con partigiani – a contenere i moti del luglio 1948. Dopodiché lascia la Polizia e inizia la carriera professionale – sempre a livello direttivo – in Comune, all’Istruzione e poi in AMGA.

Al partito s’iscrive quand’ormai comunista non è più, nel 1951, tempo di maccartismo, di campagna anti-partigiana, discriminazioni, licenziamenti nelle fabbriche; s’iscrive in solidarietà coi compagni perseguitati. Meglio in galera coi comunisti, che al governo coi democristiani, si diceva. Marco in quegli anni legge “Il Mondo” ed è abbonato a “Il Ponte” di Calamandrei, a “Esprit” di Mounier e a “Rinascita” di Togliatti: “francamente – ricorda oggi – le opinioni di Calamandrei convincevano più degli articoli di Togliatti”. Alle elezioni del 1953 vota “Unità popolare”, lista liberalsocialista con Calamandrei e Parri, ma per ragioni sentimentali rimane iscritto al PCI, fino al 1956. La frattura arriva, inconciliabile, con l’Ungheria. “Non si poteva essere combattenti per la libertà e approvare l’invasione. Non si poteva: sentivo in me una contraddizione con la mia storia. Una contraddizione che altri non sentivano: l’idea della rivoluzione, per loro, prevaleva sul rispetto dei valori della libertà. Basti pensare alla fine che ha fatto Pál Maléter, numero uno della resistenza ungherese contro i tedeschi: i russi hanno fucilato anche lui”.

E così, quando lascia il partito: borghese!, traditore!, sibilano alcuni, compreso qualche compagno partigiano: “ciò che più mi è spiaciuto, per cui ho sofferto di più”. Superato il marxismo, Marco abbraccia gli ideali dell’antifascismo democratico: Amodeo, Einaudi, Jemolo, Salvatorelli; Ernesto Rossi, Leo Valiani, Altiero Spinelli e, su tutti, Gaetano Salvémini. “I miei maggiori”, li chiama lui, con Galante Garrone. “C’è stato un antifascismo che si è alleato con Hitler: per due anni l’Unione sovietica ha rifornito la Germania nazista di tutte le materie prime; ci ha fatto gli accordi, il patto Molotov-Ribbentrop, la spartizione della Polonia, e questo è stato l’antifascismo leninista. Poi c’erano i Salvémini, gli Sturzo, i fratelli Rosselli e Giustizia e Libertà”.

Quali, per Marco, i valori della Resistenza partigiana? “In primo luogo l’onestà intellettuale: libertà significa anzitutto onestà intellettuale, ricerca della verità. Il vero tradimento della Resistenza è rappresentato soprattutto dalla corruzione; dall’insensibilità, dalla trascuratezza e l’inadeguatezza della classe politica rispetto al problema della corruzione e della moralità nella vita pubblica. Sono trent’anni che non voto. Non voglio aver a che fare coi politici. Non vado neppure alle celebrazioni partigiane, da quanto li ho in uggia. Quando vedo certi tangentari che celebrano la Resistenza, non ce la faccio, mi viene la nausea. Nel nostro Paese i valori della Resistenza sono calpestati, vilipesi. Molti di quelli che esaltano la Resistenza nei giorni festivi, la mortificano nei giorni feriali. Ma la Resistenza è un momento fondamentale della nostra storia, di cui il nostro popolo deve andare orgoglioso e conservarne la memoria. È stata un’esperienza esaltante, che ha segnato la mia vita, che ha condizionato la mia visione del mondo. È stato il momento più importante della mia vita: quello di cui vado più fiero”.

Con queste idee, si capisce, Marco ha dovuto sopportare un certo isolamento; sessant’anni d’esilio dantesco per lui che dei ribelli di Cichéro è stato uno fra gli elementi di maggiore spicco e che di quella storia ha rappresentato, perlomeno negli ultimi quindici anni, il più autorevole e oggi ultimo testimone diretto. Per mantenere un’identità propria occorre accettare tali rischi, senza smettere di ragionare con la propria testa. Marco l’ha fatto ed è rimasto “inviso a Dio e ai nemici suoi!”.