Dante Appennino


Dante Appennino 2

 

Il guerriero e il politico.

È quasi certo che Dante abbia partecipato alla Battaglia di Campaldino dell'11 giugno

1289, tra aretini (Ghibellini) e fiorentini (Guelfi). Lo troviamo bardato e armato a cavallo,

in prima fila nelle truppe di parte guelfa: come un vero cavaliere! Della sua vita politica

sappiamo che inizia nel 1295, in organi amministrativi della città, con cariche di scarso

rilievo. Il suo nome scompare per un paio di anni, sul finire del secolo, per poi tornare nel

1300, quando la sua sciagurata carriera raggiunge l'apice. È tra i 6 Priori della città, ed

esercita la carica dal 15 giugno al 15 agosto, un tempo che può apparire brevissimo, per

una sorta di ministro, ma che fu sufficiente a rovinare la sua vita. Il conflitto tra Guelfi

Neri e Bianchi è al limite della guerra civile e i Priori sono chiamati a decidere sull'esilio

di vari esponenti delle due fazioni. Un provvedimento volto a calmare le acque. Guido

Cavalcanti, amico e maestro di Dante, è tra i condannati. In esilio a Sarzana contrarrà la

malaria e tornerà a Firenze a fine agosto solo per morirci. La situazione tra "neri" e

"bianchi" precipita nell'autunno del 1301 con l'ingresso in città di Carlo di Valois,

ufficialmente in veste di paciere, incaricato dal papa Bonifacio VIII. Di fatto si tratta di un

rivolgimento politico, a favore dei Guelfi di parte nera, di Corso Donati. Dante si trova a

Roma in quelle settimane, per una ambasceria presso il papa. Il colpo di scena vanifica la

missione e di fatto da inizio al suo esilio. L'accusa è "baratteria e lucri illeciti", la condanna

"pene pecuniarie e il confino", tramutata in seguito in condanna al rogo. Dopo avere

passato circa un anno a Verona, ospite di Bartolomeo I Della Scala, tornò molto vicino a

Firenze nel 1304, a Lerma, all'incontro tra Guelfi Bianchi e Ghibellini. Motivi di speranza

venivano dalla morte di Bonifacio VIII, ma i rapporti di forza non erano affatto mutati,

l'idea di riprendere Firenze con le armi si rivela velleitaria, fuori dal tempo. Il fallimento

completo dell'iniziativa convince Dante a prendere le distanze dalla politica

definitivamente e a "fare parte per se stesso".

A questo punto possiamo tranquillamente pensare che Dante sia stato un politico molto

sfortunato. Ma forse è lecito anche pensare che la politica non era la sua arte, il suo

mestiere. Ci aiuterebbe anche a spiegare l'impossibilità di collocarsi adeguatamente presso

i vari signori del nord Italia da lui incontrati e dei quali fu ospite, di dare inizio ad una

nuova carriera, parallela a quella di poeta. Il paragone si impone continuamente nella

storia della letteratura e data la nostra posizione marginale, appenninica, possiamo iniziare

a proporlo anche così. Petrarca, con una "professionalità" del tutto simile, stessi studi

all'Università di Bologna, visse facendo l'uomo di cancelleria e il diplomatico presso le

grandi famiglie dell'epoca. Si ritagliò un ruolo di assoluto rilievo nella politica del suo

tempo, tra papi, principi e imperatori. Senza divenire mai ricco visse sempre con agio, in

luoghi da lui accuratamente scelti, in campagna, oppure ai margini della città, perché

confacenti al suo lavoro di studioso e poeta, in generale al suo spirito. Se cambiò spesso

residenza e viaggiò moltissimo, fu per la sua "inquietudine", così moderna, che lui stesso

definisce "incapacità di stare fermo". Era un cittadino europeo a cui non importava nulla

di tornare a Firenze, dove il padre, Ser Petracco, fu esiliato nello stesse circostanze di

Dante. In due parole, la Commedia e il Canzoniere, le più grandi opere della poesia

italiana, furono scritte in circostanze materiali e spirituali molto diverse.

 

Città e Contado

 

È molto piacevole constatare che ci sono storici della letteratura che hanno mostrato una

grande sensibilità verso le condizioni dei contadini o villani, come venivano chiamati

all'epoca: abitanti del contado, in prima battuta, ma anche e soprattutto, lavoratori della

terra. Uno di questi è Giampaolo Dossena e in questa pagina saliremo sulle sue spalle, per

dare una fuggevole occhiata a come erano rappresentati i contadini ai tempi di Dante.

Dossena, nativo di Cremona, amico di Danilo Montaldi, ha scritto tra le altre cose, una

"Storia confidenziale della letteratura italiana", magari un poco snobbata negli ambienti

paludati delle accademie, ma molto utile per chi, come noi, si avvicina alla storia della

letteratura a partire dall'Appennino.

Con il suo approccio terra terra, ironicamente terra terra, ancorando i fatti a date e luoghi,

ci ricorda che il 6 agosto 1289 a Firenze veniva abolita la servitù della gleba. La gleba è la

zolla di terra e almeno formalmente, da quella data, è vietato vendere i contadini insieme

alle terre e vengono abolite le prestazioni servili. Il provvedimento non arriva a porre sullo

stesso piano gli abitanti del contado e quelli della città: un contadino che offende un

cittadino deve sopportare una pena doppia rispetto al caso contrario e permangono misure

restrittive alla libertà dei contadini, alla loro libertà di muoversi verso la città e inurbarsi,

ad esempio.

Spostando lo sguardo alle testimonianze letterarie, possiamo farci un'idea di come era

considerati i contadini attorno al 1300, dal trattato in versi "Detto dei villani" di Matazone

da Calignano. Il testo non è datato, ma viene collocato con sicurezza nel XIII secolo. Di

Matazone sappiamo che era un Giullare al servizio di signori e cavalieri, perché lui stesso

si presenta così. Il testo gioca attorno alla contrapposizione tra due figure tipiche del

tempo: il Cavaliere e il Villano. L'andamento è ironico, giullaresco, caricaturale, fino

all'eccesso. I contadini vengono tratteggiati con caratteri bestiali e disgustosi, associati allo

sterco, al letame, agli animali da lavoro, con cui vivono a stretto contatto. La differenza è

radicale, si impone come un marchio, al momento della natalità: mentre il cavaliere nasce

dal connubio tra una rosa e un giglio, il villano trova la sua origine in un peto di asino:

 

Como fo l'istoria

De soa natevità,

Voyo che vu intendà

Là zoxo, in uno hostero,

Si era un somero;

De dre sì fe un sono

Sì grande come un tono:

De quel malvaxio vento

Nascé el vilen puzolento.

 

Da un punto di vista storico, il documento è molto interessante. Elenca minuziosamente le

prestazioni e le opere cui il villano è sottoposto, ci parla di cibi e pratiche diffuse all'epoca.

Non stupisce che un pittore molto vicino all'Appennino e al mondo rurale, come Piero

Leddi, ci abbia lavorato sopra.

Giampaolo Dossena consiglia, confidenzialmente, di usare molta cautela nell'interpretare

in modo univoco un testo come quello di Matazone, che a me sembra, in rima, un bel

 

mattacchione. Negli stessi eccessi del componimento la bestialità del contadino sembra

perdere la sua presa e tramutarsi, di riflesso, in una critica sottile del mondo della nobiltà a

cui la giullarata era rivolta: la ripresa che ne fa Dario Fo per il suo Mistero Buffo, la

possiamo leggere in questa prospettiva. In ogni caso, a prescindere dagli intenti più riposti

di Matazone, che rimangono celati, è così che venivano rappresentati i contadini a corte.

Sfogliando i documenti letterari dell'epoca, Dossena non ha dubbi sul fatto che il

sentimento dei cittadini verso i contadini sia un sentimento di odio, non tanto e non solo di

classe, relativo ai grandi cambiamenti sociali ed economici, quanto etnico: i villani sono

un'altra razza, nascono da peti di asino, sono selvaggi. E il Sommo Poeta? Anche il

cittadino Dante è impregnato di questo sentimento e non esita ad attribuire i mali di

Firenze all'inurbamento dei contadini, dei puzzolenti villani. Tanto peggio se arricchiti,

magari con il commercio, con la loro volgarità di ultimi arrivati, così lontani dalla

tradizione cavalleresca e cortese, che contraddistinse la grande nobiltà, quella vera, o forse

solo sognata dal poeta. È curioso constatare come Dante, che sceglie come guida Virgilio,

autore delle Bucoliche e delle Georgiche, non abbia riportato, dall'età classica, quella

visione dei contadini fatta di onestà, dedizione al lavoro, operosità, che contrasta così

fortemente con la figura letteraria del villano medioevale. Ci conforta trovare in Petrarca

uno sguardo affatto diverso. Amava coltivare i suoi giardini, le piante da frutta e in

Valchiusa, a seguito di uno smottamento di cui fu testimone, si impegnò in opere di

contenimento del dissesto idrogeologico. Queste pratiche gli permisero di entrare in stretto

contatto con i custodi della terra ed apprezzare la loro cultura, per quanto non libresca,

costruendo un nuovo ponte verso l'età classica anche in questo campo.

 

Firmato Gherardo Segarelli da Mereta.


Dante Appennino 1

Della vita di Dante, sappiamo poco, pochissimo. Molte delle cose che sappiamo sono

probabili, più che certe, indizi che faticano a trovare riscontri definitivi. Sappiamo poco

soprattutto in relazione agli interrogativi che continua a suscitare la sua opera. Vorremmo

sapere tutto, tutto quello che la sensibilità del presente ci suggerisce di domandarci, ma

dobbiamo accontentarci di tracce. I documenti relativi alla sua vita si rarefanno

ulteriormente negli anni dell'esilio, quelli in cui scrive la Commedia e attraversa

l'Appennino.

Il vuoto non è colmato dagli scritti che cominciano a dedicargli dopo la morte. Il

Trattarello in laude di Dante è l'esempio più noto. Scritto da Boccaccio, tra il 1357 e il

1362, è prima di tutto un segno dell'interesse e dell'ammirazione che l'autore del

Decamerone nutriva per Dante, fin dalla giovinezza, e che coltivò tutta la vita parlando con

diverse persone che conobbero il poeta. Oltre a scrivere il Trattarello, Boccaccio (1313-

1375), passò gli ultimi anni della maturità a commentare e divulgare la Commedia, che

chiamò "Divina". Un lavoro prezioso, che tramandava l'opera di Dante e la sua fama,

dando inizio al culto per il grande genio.

 

Le Rime e la Vita Nova.

Nato nel 1265, Dante entra nel cerchio dei poeti fiorentini a 18 anni, nel 1283, con l'invio

ad una selezione di eletti del sonetto-visione A ciascun'alma presa e gentil core. Le poesia

si rivolgeva ai cuori gentili e parlava d'amore, nello stile che avevano cominciato a

diffondere Guido Guinizzelli e Guido Cavalcanti. La corrispondenza in versi era una

pratica diffusa, intrecciava dialoghi sotto forma di "tenzoni", proposte, esortazioni ed era

all'origine di botta e risposta che potevano essere molto spassosi.

Negli anni successivi Dante esplorerà altri filoni, che ritroveremo nella Commedia, come il

Comico e le "Rime Petrose". Ma per la storia della letteratura questi sono gli anni del

Dolce Stil Novo e Dante è tra i protagonisti. Nei primi anni novanta è un poeta affermato,

riconosciuto, che gode di una certa fama, non solo a Firenze e nella cerchia dei letterati: a

Bologna, nel 1287, il Notaio Enrichetto delle Querce trascrive sopra un documento cui

stava lavorando, a margine, un sonetto che comincia "Non mi porìano già mai fare

ammenda". Sappiamo che il sonetto era di Dante.

Nel 1295 Dante porta a termine un nuovo lavoro, la Vita Nova, che rappresenta il culmine

di questa stagione e in qualche modo anche un racconto della stessa. Si presenta come un

di romanzo d'amore, autobiografico, estremamente pop, facile e lineare: è composta da 31

poesie scritte in momenti diversi e montate al termine di capitoli in prosa che narrano,

tessono, inventano. Lo si può leggere in poche ore, tutto di un fiato. Ma come ci ricordano

le righe di chiusura, siamo di fronte a un poeta, a Dante, e la riflessione sull'amore non è

mai disgiunta dalla riflessione stilistica, dalla forma poetica. Ovvero le parole finali, oltre a

farci pensare alla futura Commedia, ci guidano a ritroso nel rileggere il romanzo, magari

più lentamente, alla scoperta di questa relazione di "convenienza" tra la materia amore, il

suo divenire e le rime.

"Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, nella quale io vidi cose che

mi fecero proporre di non dire più di questa benedecta infino a tanto che io potessipiù

degnamente tractare di lei. [...] Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono,

che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dire di lei, quelo che mai non fue detto

d'alcuna".

 

Nel complesso Dante scriverà 59 poesie sparse, raccolte nelle Rime e 31 montate nella

Vita Nova. Gran parte di queste vennero scritte prima di arrivare "Al mezzo del cammin di

nostra vita", ovvero al 1300, la data fatidica. Con l'ingresso in politica ed il successivo

esilio termina infatti la prima parte della vita di Dante e siamo a cavallo del nuovo secolo.

 

Appennino

Dante sarà costretto ad attraversare l'Appennino più volte e in alcuni momenti della sua

vita a soggiornarvi per periodi anche abbastanza lunghi, in Lunigiana e nel Casentino. Un

luogo di attraversamento e di sosta, dove il poeta ha pensato, immaginato, scritto.

Gli anni di Dante, prendiamo il 1300 come punto di riferimento, rappresentano il culmine

di una espansione demografica ed economica che prosegue senza grandi interruzione da

circa tre secoli, a partire dall'anno mille. Un fenomeno che attraversa l'Italia e buona parte

dell'Europa. La popolazione aumenta vorticosamente, nelle città e nella campagna, i centri

esistenti crescono, vengono fondati nuovi villaggi, colonizzate le colline, le pendici dei

monti. Muta il volto delle città ed in stretta relazione, quello quello del contado, il

paesaggio agrario. È sempre il bosco a dominare la scena, non solo sulle montagne e sulle

colline, ma anche nelle pianure. Tuttavia gli spazi aperti, coltivati, si allargano

significativamente in questi secoli.

Disboscamenti e dissodamenti si susseguono a un ritmo da frontiera per far fronte alle

crescenti esigenze alimentari di una popolazione in aumento. La coltura del grano e più in

generale di cereali torna a diffondersi, a conquistare nuove aree, dopo la frattura

successiva alla fine dell'impero romano, il conseguente cambio di passo. Pionieri e coloni

crescono attorno a piccoli insediamenti già esistenti, ne fondano di nuovi, attorno a rocche

e castelli si moltiplicano gli abitati.

In questo contesto molto ruspante nasce anche Avolasca. Per la posizione che occupa, tra

alta collina e prime montagne, Avolasca fa parte di una sorta di "Preappennino". Ancora

oggi è in larga parte circondata da boschi, che tornano a espandersi, in seguito

all'abbandono delle terre e osservando il paesaggio sono ben visibili i segni dell'avanzata e

i successivi arretramenti delle coltivazioni. Avolasca è nominata nella Cronaca di Tortona

all'anno 1176. La presenza del "castello" viene data per certa attorno all'anno mille e una

prima chiesa venne costruita nel secolo successivo. In occasione dell'assedio di Tortona da

parte di Federico Barbarossa, pare che alcuni milanesi arrivati per difendere la città si

fossero stabiliti attorno al "castello". Più indietro, in epoca longobarda, Avolasca viene

menzionata tra i possedimenti dell'Abbazia di San Colombano di Bobbio. Più avanti, per

secoli, abbiamo solo scarne notizie, dalle quali si desume tuttavia che un piccolo centro si

era formato. Cominciamo ad avere dati interessanti solo a partire dal 1669, quando la

popolazione assommava a "250 anime in 45 fuochi". Ma non bisogna fare l'errore di

immaginare una sorta di progresso lineare, continuo. I decenni della maturità di Dante

segnano come una punta nella storia dell'Appennino medioevale, all'interno della quale gli

storici vedono già i segnali della prossima crisi.

Il tracollo viene comunemente ricondotto all'avvento della peste nera in Europa, nel 1348.

Dante non la vedrà, ma ne saranno testimoni Boccaccio e Petrarca (1304-1374), di un paio

generazione più giovani. Per Boccaccio la peste divenne la cornice del suo progetto

letterario più ambizioso, il Decameron. Cominciano decenni di declino demografico ed

economico, i paesi si spopolano, la terra viene abbandonata all'incolto. Il fenomeno, fatte

le debite proporzioni, può essere posto in relazione a quanto avvenuto in Italia nel corso

del ventesimo secolo. Tenendo presente che nel medioevo lo spopolamento

dell'Appennino avvenne in concomitanza con un tracollo demografico che riguardava da

vicino anche il mondo delle città, dei centri grandi e piccoli delle pianure. Fu un collasso

generale. Nel secolo ventesimo lo spopolamento della campagna e dell'Appennino avviene

in parallelo ad un incremento vertiginoso dell'economia e della popolazione, e va quindi

posto in relazione all'urbanizzazione, all'industrializzazione e alla discesa delle persone

verso la pianura. Un collasso culturale e politico.

Tutto questo per dire che l'Appennino attraversato da Dante era molto popolato, in

relazione ai numeri dell'epoca, e le campagne erano sicuramente ben coltivate, pascolate,

almeno fino alla collina, al preappennino. Attorno era il bosco.

 

 

Firmato Jacopone Da Oliva

 

Mulazzo, Lunigiana. Sullo sfondo le Alpi Apuane.